Dal fare ad dire, July 2010.
Stili del bere e culture della prevenzione
Intervista con Stanton Peele
Alberto Arnaudo
Realizzata in collaborazione con Franca Beccaria
Stanton Peele è uno psicologo statunitense che si occupa di alcol e dipendenze. Il suo primo libro, Love and Addiction (1975), ha introdotto l'idea che il concetto di dipendenza non è limitato al consumo di sostanze. In The Meaning of Addiction (1985) ha delineato un modello sistematico di dipendenza in cui sono cruciali i concetti culturali e individuali legati alle sostanze e alla natura delle dipendenze. In Diseasing of America (1989) Peele ha messo in evidenza come gli Stati Uniti abbiano diffuso in tutto il mondo un modello patologico di alcolismo e di dipendenza. Sulla base di queste considerazioni, egli ha sviluppato un approccio di trattamento - the Life Process Program, delineato in The Truth About Addiction and Recovery (1991) e in 7 Tools To Beat Addiction (2003).
Lo abbiamo incontrato in occasione di un seminario, organizzato nello scorso mese di maggio a Torino in collaborazione tra il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università e l’Osservatorio Epidemiologico Dipendenze della Regione Piemonte, Itaca Italia, FederSerd, SITD, Gruppo Abele, e gli abbiamo rivolto alcune domande.
Da molti studi sta emergendo un’immagine della diffusione dei danni da alcol in popolazioni che hanno differenti stili di consumo in buona parte contrastante con quanto comunemente si pensa. Qual è la sua opinione in merito?
Lo studio ECAS del 2002, uno studio comparativo europeo che contiene anche i dati di mortalità in Europa, così come altre ricerche successive, mettono in risalto che nel vecchio continente, sebbene l’uso di bevande alcoliche, e segnatamente del vino, sia più diffuso nelle regioni mediterranee, in realtà i consumi pro capite, ed i danni alcolcorrelati, sono di gran lunga maggiori nel nord Europa. La percentuale di mortalità alcolcorrelata, secondo lo studio ECAS, per esempio, riguarda il 18 (per 100.000 + 15) dei maschi e il 3 delle femmine nel nord Europa, contro –rispettivamente- il 7 e 2 nel Centro, e addirittura il 3 e lo 0,5 nel Sud. Ciò sta ad indicare che gli stili di consumo prevalenti nelle regioni mediterranee in qualche modo esercitano un ruolo di protezione nei confronti dei danni alcolcorrelati.
A vederla da qui, non sembrerebbe proprio. Anzi, le politiche di educazione e prevenzione promosse un po’ a tutti i livelli stanno adottando progressivamente gli stili proibizionisti in vigore nel nord Europa!
E questo, a mio modo di vedere, è un doppio errore. Prima di tutto, i dati, come dicevo, suggeriscono che, se mai, sarebbero proprio gli stili di consumo del sud Europa quelli che andrebbero maggiormente promossi. Le faccio un esempio: in Svezia, si è proceduto ad una sperimentazione, abbassando i prezzi degli alcolici, tramite la riduzione della tassazione, ed abolendo le restrizione sulla loro importazione, nelle regioni meridionali, lasciando in vigore invece le regole precedenti, molto restrittive, in quelle settentrionali; ebbene, al sud, dopo un iniziale incremento dei consumi, gli stessi sono diminuiti, così come i danni alcolcorrelati, rispetto al nord. Ciò dimostra, in parallelo con ciò che finora è accaduto intorno al Mediterraneo, che una politica più liberale nei confronti dell’alcol porta benefici.
Ma c’è un secondo errore, ancora più serio: è quello di voler imporre dall’alto politiche uniformi di contrasto dei danni da alcol in popolazioni che hanno, nei confronti dell’alcol stesso, culture differenti: ogni azione andrebbe mirata invece facendo prima i conti con l’immagine che dell’alcol ha ogni specifica popolazione.
Dunque una politica di prevenzione efficace in Italia potrebbe non esserlo nei Paesi anglosassoni, e viceversa?
Certamente. Guardi, qui da voi l’alcol, il vino, è intimamente legato all’alimentazione, alla convivialità, e fa parte della quotidiana esistenza fin da bambini. O, per lo meno, è stato così fino a ieri. Nei Paesi anglosassoni, viceversa, ed in particolare negli USA, l’alcol è una sostanza demonizzata. Il risultato è che da voi lo si conosce fin dalla culla, si può dire, e quel che si impara a conoscere lo si ri-conosce poi più facilmente anche nei suoi aspetti negativi; da noi invece i giovani scoprono l’alcol alle soglie dell’età adulta, e finiscono per non saperlo maneggiare…
Eppure, la globalizzazione dei consumi fa sì che gli stili “nordici” si stiano diffondendo anche da noi, mentre va diminuendo proprio l’uso alimentare che, dice lei, risulterebbe così protettivo.
E questo è un male! Non dovreste disperdere il vostro patrimonio culturale, nei confronti per esempio del vino, che si è rivelato così utile a proteggere contro certi eccessi. Se succederà, chi insegnerà a bere ai bambini? Da noi non lo fa nessuno, e gli effetti si vedono…
Quindi, secondo lei, una politica di prevenzione dei danni da alcol in Italia…
… dovrebbe non considerare l’alcol come un “male”, bensì cercare di promuovere una cultura “positiva” del bere, ossia la sua associazione ai momenti positivi dello stare insieme in famiglia, della convivialità, senza eccessi. E’ sulla modalità di relazione con l’”oggetto” alcol, più che sui danni o sui rischi che dal suo uso possono derivare, che varrebbe la pena di puntare per costruire politiche efficaci di prevenzione, valorizzando i pregi del cosiddetto “bere moderato”.
E questo, se permette, ci porta difilato a dover prendere in considerazione il concetto di “piacere”, che viene sempre sottaciuto quando si parla di prevenzione, come se fosse pericoloso parlarne: non crede che sarebbe più corretto, ed anche più efficace, associare la nozione di consumo moderato di alcol al “piacere” che ne può derivare, piuttosto che alla “salute” che se ne può (forse) guadagnare? Non trascurando naturalmente il fatto che, con ogni probabilità, la gratificazione che deriva da un piacere senza eccessi costituisce di per sé un fattore di salute!
Sono completamente d’accordo! Negare gli aspetti piacevoli del bere è assolutamente irrealistico. E poi, perché privare le persone di un elemento positivo della loro vita? Ma in questa discussione, ciò che è più importante notare è che il consumo “piacevole” di bevande alcoliche è un consumo che “fa salute”! Ciò è vero in primo luogo perché il piacere che si ricava dal consumo contribuisce alla sua salubrità. In secondo luogo, apprezzare l’alcol (come opposto all’intossicazione) PORTA al consumo moderato, che è la più importante forma salutare del bere.
Un altro aspetto su cui lei si è concentrato riguarda la dipendenza da alcol. Come vede il concetto di alcolismo come “malattia”?
Negli USA, e di conseguenza un po’ in tutto il mondo occidentale, si sta affermando un vero e proprio marketing delle “dipendenze”. Si tende a medicalizzare un po’ tutto, anche aspetti fisiologici o parafisiologici dell’esistenza. Io credo che il disturbo alcolismo vada affrontato nella sua globalità di danno fisico, psichico e relazionale, con il coinvolgimento quando possibile di tutte le componenti della famiglia. La famiglia è un elemento critico, sia in termini di modello sia in termini di relazioni serene e di sostegno, nella formazione o nella prevenzione di tutte le forme di dipendenza. Il concetto di “malattia” mi sembra estremamente riduttivo, e forse fuorviante, per definire tale disturbo.
E pensa che l’obiettivo ultimo di ogni intervento “terapeutico” debba essere l’astinenza?
L’obiettivo ultimo, quando possibile, deve essere l’eliminazione del disturbo, che non comporta però, a mio modo di vedere, per forza l’astinenza: il mio approccio di terapia procede per tappe, puntando ad un controllo sempre maggiore da parte dell’interessato dei suoi comportamenti dannosi rispetto al bere, e ad avere più controllo sulla propria vita in genere, ciò cui segue un maggior controllo anche appunto sul bere o sul consumo di altre sostanze. Purtroppo non tutti i soggetti rispondono alle terapie. Ma anche nei casi non trattati le persone in molti casi riescono alla fine a controllare il loro bere. Il mio modello di trattamento Life Process Programe ha l’obiettivo di accelerare questo processo di guarigione naturale (natural recovery process).
Per finire, quale consiglio darebbe a noi italiani?
Darvi consigli? Ma no! A parte ciò che vi ho già detto prima, sono io che vorrei chiedere un consiglio a voi: in USA abbiamo imparato a fare i vostri vini, e qualcuno, come me, a gustarli; ma come possiamo riuscire ad importare anche i vostri stili del bere?